Sempre più persone scelgono di ridurre o eliminare del tutto il consumo di latte vaccino, passando alle alternative vegetali: che sia per una questione etica, di sostenibilità ambientale o per un’intolleranza alimentare, di fatto stiamo assistendo all’ascesa dei prodotti plant-based ormai da qualche anno.
Ecco allora che le alternative plant-based entrano di diritto nelle abitudini quotidiane di milioni di persone, ed è frequentissimo sentir parlare di “bevande vegetali”. Navigando sul web, guardando video di ricette o ascoltando qualche influencer parlare della sua ultima spesa vegan friendly, è molto raro che si parli di latte vegetale: perché ma, soprattutto, perché è sbagliato?
Quando l’Europa denunciava il milk sounding
Negli ultimi anni, in Europa si è spesso parlato di milk sounding, riferendosi all’uso, per prodotti vegetali, di termini legati alla produzione di latte e derivati, come appunto “latte vegetale”, “yogurt” o “burro” in etichetta.
A sollevare la questione, le organizzazioni europee del settore zootecnico, preoccupate che l’impiego di denominazioni legate a prodotti di origine animale sugli alimenti vegetali, potesse confondere i consumatori. L’idea di fondo è che una persona distratta o poco accorta, possa erroneamente aggiungere nel carrello un prodotto vegetale, credendo invece di acquistare latte vaccino, burro o yogurt.
Una questione che in Europa ha riguardato anche il meat sounding, ovvero gli analoghi vegetali di carne e derivati. In questo caso, a ottobre del 2020 il Parlamento europeo ha votato contro l’approvazione dell’emendamento 165, che mirava a vietare le denominazioni come “bistecca“, “salsiccia“, “scaloppina“, “burger” e “hamburger” riferiti ai prodotti vegetali.
A maggio dello scorso anno, è stato respinto anche l’emendamento 171, la cui entrata in vigore avrebbe rappresentato una vera e propria censura sui prodotti vegetali, impedendo l’uso in etichetta di termini come “simil yogurt” o “sostituto del formaggio” e, più in generale, qualsiasi riferimento o evocazione a termini riferiti a prodotti caseari; questo significa anche nessun riferimento al lattosio o alla sua assenza, mettendo così in potenziale pericolo i consumatori con allergie. Ma non basta, perché l’emendamento 171 avrebbe censurato anche le pubblicazioni sui social network e le pubblicità che menzionino dati scientifici a favore della scelta vegetale dal punto di vista ambientale. Per finire, avrebbe potuto proibire persino l’uso di immagini “evocative” sulle confezioni dei prodotti plant-based.
Latte vegetale e alternative veg: la normativa
Il tutto, va ricordato, è avvenuto in un quadro normativo che tutela già ampiamente latte e derivati, perché termini come “latte”, “panna”, “burro” e “formaggio” sono già riservati ai prodotti derivati dal latte; denominazioni come “formaggio vegano” o “latte d’avena” risultano già vietate in etichetta.
Il regolamento (CE) n. 1234/2007 prescrive infatti che le denominazioni del latte e dei prodotti lattiero-caseari siano riservate esclusivamente ai prodotti elencati nel relativo allegato XII, punto II:
La denominazione «latte» è riservata esclusivamente al prodotto della secrezione mammaria normale, ottenuto mediante una o più mungiture, senza alcuna aggiunta o sottrazione. Sono riservate unicamente ai prodotti lattiero-caseari le seguenti denominazioni: siero di latte, crema di latte o panna, burro, latticello, butteroil, caseina, grasso del latte anidro (MGLA), formaggio, iogurt, kefir, kumiss. viili/fil, smetana,fil.
Perché “latte vegetale” si deve dire?
Fatte queste doverose premesse, arriviamo al punto fondamentale della questione: parlare di bevanda vegetale, specialmente sul web, presta di fatto il fianco alla censura sui prodotti vegetali respinta dal Parlamento europeo stesso.
Innanzi tutto, va ricordato che la restrizione riguarda solo le etichette dei prodotti, e quindi le aziende: un produttore di alimenti alternativi a quelli lattiero caseari, non può scrivere in etichetta “latte di soia” o “latte di riso”, ma questo non intacca certamente il linguaggio quotidiano. Certo, questo non significa che dire “bevanda vegetale” sia vietato, ma è necessario non delegittimare i prodotti alternativi a quelli animali con denominazioni che, in qualche modo, ne compromettono l’affermazione.
Posto che sicuramente nessun consumatore comprerebbe per errore un alimento vegetale invece di uno di origine animale, potremmo vedere in questa censura sulle denominazioni dei prodotti veg il tentativo di bloccare l’ascesa di un mercato in fortissima espansione. Basti pensare che, secondo i dati Eurispes 2022, solo in Italia si è registrato un +44% di consumi di latte vegetale e altre bevande 100% plant-based. Più che un errore di acquisto indotto da una dicitura considerata “fuorviante”, ci aspettiamo che il consumatore sia incuriosito dall’alternativa vegetale e che, conscio di quello che sta mettendo nel carrello, provi un prodotto diverso… e forse è proprio questo il problema.
Sappiamo inoltre che il latte vegetale può essere usato come sostituto del latte vaccino in moltissime occasioni, e privarlo del suo nome equivale a privarlo della sua posizione all’interno del mercato alimentare. Ricordiamo le parole non solo definiscono il mondo, ma lo creano.
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Laura Di Cintio
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